Riprendiamoli: la sfida per i beni confiscati alla mafia

«Confiscati Bene» è un progetto di data journalism per censire il patrimonio, frutto di attività illegali, che lo Stato ha sottratto alla criminalità: 27.000 case, terreni, aziende, auto di lusso. Solo 11.000 sono stati riassegnati. La mappa, le leggi, la burocrazia, le storie: un'inchiesta sui tesori che aspettano di essere restituiti alla comunità. Con il vostro aiuto.

Sul terreno sequestrato nel 1999 al boss Matteo Messina Denaro — il nuovo capo di Cosa Nostra in Sicilia, ricercato numero uno dalla polizia italiana — doveva nascere un campo di calcio. Ma ancora nulla è stato fatto.
Il palazzo storico confiscato alla camorra, dove Giuseppe Garibaldi dormì e dove nel 1860 venne firmata la resa di Capua, da venti anni sta andando in rovina.
La pizzeria di un boss della ‘ndrangheta infiltrato a Lecco, nel cuore produttivo del Nord Italia, è chiusa da 24 anni.

Ci sono altre decine di storie simili: nonostante gli sforzi, lo Stato non riesce a gestire tutta la ricchezza — frutto di attività illegali — che negli anni è stata sottratta alla criminalità organizzata. Dal 1982 a oggi, sono stati sequestrati e confiscati 27.000 beni: ville, cascine, castelli, alberghi, cliniche, supermercati, stabilimenti balneari, auto di lusso. Di questi solo 11.000 sono stati riconsegnati alla comunità. Un patrimonio dal valore incalcolabile che si deteriora ogni giorno di più.

È una sconfitta, 34 anni dopo la prima legge che porta il nome di Pio La Torre, politico siciliano, esponente del Partito comunista, assassinato dalla mafia proprio a causa del suo impegno per la riconquista dei patrimoni dei boss. Vent'anni fa, nel 1996, una seconda legge — chiesta da un milione di italiani e promossa dall’associazione Libera — stabilì le regole sul riuso sociale dei beni confiscati. E grazie a questa mobilitazione ci sono anche storie di riscatto e buoni esempi di riutilizzo virtuoso. In Calabria, a Goia Tauro, i migranti strappati al caporalato ora lavorano nel campo confiscato ai clan. I lavoratori del Grand Hotel Gianicolo a Roma dopo il sequestro dell’albergo sono stati finalmente messi in regola.

Ma ancora oggi, come dimostrano gli esempi citati all'inizio, la legge fatica a essere applicata e a dare i suoi frutti. Perché? Di chi sono le responsabilità? Cosa si può fare nell’immediato? Servono nuove leggi? Come possiamo trasformare in un bene collettivo i proventi di traffico di armi e droga, di estorsioni, riciclaggio? L’inchiesta dell’Istituto di formazione per il giornalismo dell'università di Urbino e dei quotidiani locali del Gruppo Espresso cerca di rispondere a queste domande.

Il punto di partenza — e di arrivo — è il lavoro di Confiscati Bene, una comunità di giornalisti e cittadini nata attorno alla passione per gli open data e per la trasparenza della pubblica amministrazione. Confiscati Bene è un progetto partecipativo che si alimenta grazie all’impegno di tutti: ha l'obiettivo di catalogare tutti i beni sottratti alla criminalità in Italia e in Europa . È aperto ai cittadini, con uno spazio online dove raccogliere nuovi dati, scambiarsi informazioni sui beni abbandonati, segnalare casi di buona o cattiva gestione, proporre progetti per il riutilizzo. E consente un monitoraggio costante del fenomeno, affiancando, integrando e in parte sostituendo l'attività istituzionale dell'Agenzia dei ben confiscati. Questa è la scommessa partita nel 2014 che ha portato alla creazione di un database, liberamente scaricabile, di tutte le proprietà sequestrate alla mafia e censite dall'Agenzia. Il database alimenta una mappa, in continuo aggiornamento: nel marzo 2016 è stato fotografato l'ultimo censimento dei beni, con una panoramica nazionale e una serie di focus regionali.

Nel 1982 il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nella sua ultima intervista prima di essere ucciso dalla mafia, punta il dito contro la grande ricchezza accumulata dai criminali in tutta Italia: “La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali".
La caccia ai patrimoni diventa il tallone d’Achille dei mafiosi.

Nel 2007, il malavitoso Franco Inzerillo si lamenta con i nipoti, durante il colloquio nel carcere di Torino: “Cosa più brutta della confisca dei beni non c’è. Qua c’è solo da andare via, e basta”.

Colpire dritto al patrimonio, ai “piccioli”, come diceva La Torre: così si combattono le cosche. Ma la strada del riutilizzo dei beni confiscati è piena di ostacoli. Due esempi per tutti. In Sicilia è finita sotto accusa il magistrato palermitano Silvana Saguto: sarebbe stata in combutta con l’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara che, in cambio della gestione di grandi aziende confiscate faceva lavorare come consulente il marito del giudice. A Licata, in provincia di Agrigento, solo dopo la denuncia degli attivisti di “A testa alta” sono stati pubblicati sul sito del Comune tutti i beni confiscati sul territorio, così come previsto dalla legge.

Le attività mafiose, come previsto dal generale dalla Chiesa si sono allargate in tutta Italia. In modo così massiccio che l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati fa fatica a reggere il passo con le confische. Basti pensare alla inchiesta Aemilia, in Emilia Romagna, il più grande processo contro le cosche al Nord con 1200 testimoni e, finora, 200 arrestati tra politici e imprenditori locali. O a Brescello, il comune emiliano famoso per i film di don Camillo e Peppone ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi, commissariato per i legami tra amministratori e clan della ‘ndrangheta.

“Per tutto il lavoro che c’è mi servirebbe un organico triplicato, almeno 300 persone”, sentenzia il direttore Umberto Postiglione. Tra i beni da gestire, Postiglione si ritrova anche trenta Ferrari. L’idea: un accordo con Maranello per rimettere le auto a nuovo e facilitarne così la vendita all’asta. I proventi andranno al fondo per i familiari delle vittime di mafia.

Mafie, la marcia verso Nord

“Brescello visto da destra è il paese di Don Camillo, visto da sinistra è il paese di Peppone”, recitava la voce fuori campo del film «Il compagno don Camillo», prodotto nel 1965 e diretto da Luigi Comencini.

Ora Brescello è il primo Comune in Emilia Romagna sciolto per mafia. La decisione arriva nell'aprile del 2016 dal Consiglio dei ministri: Brescello, in provincia di Reggio-Emilia è stato per molto tempo luogo di contatto tra amministrazione locale e 'ndrangheta e va commissariato per 18 mesi. La prima denuncia era arrivata nel settembre del 2014 quando un video della tv locale, Cortocircuito, mandò in onda l'intervista a Marcello Coffrini durante la quale l'ex sindaco non solo mostrava familiarità con il condannato per associazione mafiosa Francesco Grande Aracri (colpito da sequestri preventivi per circa 5 milioni di euro) ma spendeva anche parole benevole verso il boss. Adesso a Brescello poco è rimasto di quel piccolo mondo in bianco e nero disegnato da Giovannino Guareschi, dove don Camillo e Peppone (nella foto a sinistra) si fronteggiavano sempre senza farsi mai la guerra per davvero. Ma la vicenda del Comune reggiano è solo uno dei risvolti dell'inchiesta giudiziaria Aemilia, il processo più grande mai tenuto al nord contro la mafia. I contatti tra i clan malavitosi hanno intessuto una fitta rete di affari e favori lontano da quelle considerate le terre d'elezione: Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. La mappa dei beni confiscati, realizzata dal team di Confiscati Bene con i dati, aggiornati al 31 dicembre 2015, dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia mostrano una migrazione delle infiltrazioni criminali nelle terre un tempo considerate intoccabili del nord.

Le confische al nord. Dopo le cinque regioni del sud, entrano in classifica Lombardia (1.706 beni confiscati), Piemonte (351) ed Emilia-Romagna (304). In questi territori i casolari, i terreni ma soprattutto le aziende confiscate alla mafia raccontano come è cambiata la geografia criminale in Italia. La maggior parte delle confische in Lombardia è concentrata nella provincia di Milano dove sono stati sottratti alla criminalità, fino al 2015, 1.006 beni in totale. Seguono la provincia di Brescia con 156 confische e quella di Monza e Brianza con 115. Spostandosi più a ovest, anche il Piemonte registra numeri alti: nella sola provincia di Torino ci sono 229 beni confiscati.

Nessuno escluso. Ma non bisogna prestare attenzione solo ai numeri delle confische. Un esempio è il Friuli-Venezia Giulia dove si sono spinti gli interessi della mafia siciliana. Il numero dei beni confiscati negli ultimi due anni ha registrato un aumento del 121%: si è passati da 19 confische a fine 2013 a 43 a dicembre del 2015. Le cifre non sono altissime ma, secondo il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, «in Friuli Venezia Giulia ci sono insediamenti di imprese e aziende che sarebbero riconducibili a personaggi legati alla mafia siciliana». L'analisi del giornalista è confermata dalla confisca di 81 beni immobili, 4 società, un autoveicolo e un’imbarcazione appartenute a Camillo, Massimiliano e Roberto Graziano, imprenditori friulani legati alle cosche Madonia e Galatolo, componenti dell’ala stragista di Cosa nostra. Nel libro “Passaggio al nord”, il presidente onorario di Libera, Nando dalla Chiesa, parla di “colonizzazione progressiva” della mafia nelle regioni settentrionali in Italia, soprattutto la ‘ndrangheta. Nessun investimento in borsa o in finanza: “la mafia in Lombardia e in Piemonte conquista territori, parte dal basso, dal movimento terra o dalle cooperative di pulizia”, chiarisce dalla Chiesa.

Aemilia, processo ‘spartiacque’. «Terra di mafia». Così è stata definita l'Emilia-Romagna dalla Dna, la direzione nazionale antimafia, sfatando il mito di una regione assolutamente al riparo dalle infiltrazioni mafiose. «Un termine che può sembrare eccessivo solo a quelli che si ostinano a non credere all'evidenza», racconta Giovanni Tizian, giornalista dell'Espresso.

L'aula speciale del processo Aemilia a Reggio Emilia

Tizian vive sotto scorta dal 2011 per aver denunciato i giri d'affari milionari del gioco d'azzardo a Modena e per aver fatto il nome di Nicola Femia, imprenditore già pregiudicato e vicino alla 'ndrangheta. La storia di Tizian è legata a doppio filo alla Calabria: nel 1989, il padre Peppe venne ucciso a colpi di lupara mentre rientrava a casa, a Locri. Non si fece mai chiarezza sulle dinamiche di quella sera. Le carte del processo Aemilia e, prima gli articoli di Tizian per la Gazzetta di Modena parlano di un territorio impoverito dalle infiltrazioni mafiose, dove a muovere le pedine della politica, degli appalti, delle aziende e delle nomine sono più di mille persone. Il settore delle costruzioni è sicuramente quello preferito dai malavitosi. Seguono quello della ristorazione e del turismo, tutti fiori all'occhiello della regione Emilia-Romagna. Il settore del mattone è quello dove l'economia criminale ha investito maggiormente. E la storia della ditta Bianchini di San Felice sul Panaro una delle aziende coinvolte nella ricostruzione del terremoto del 2012, ne è l'esempio. I Bianchini, grazie a un giro di mazzette e di contatti con Michele Bolognino, reggiano e oggi considerato dagli inquirenti uno degli organizzatori delle cosche cutresi dei Grandi Aracri, sono riusciti ad entrare nella white list, la lista di aziende estranee alla mafia e individuate per la ricostruzione post terremoto che, nel maggio del 2012, distrusse casolari, aziende e interi paesi dell'Emilia-Romagna.

L'inchiesta Aemilia è stata un vero momento spartiacque: con oltre 200 imputati e più di mille testimoni per il processo ordinario, la quantità di dati e di informazioni sulla mafia locale è enorme. Nessun imprenditore, nessun sindaco o assessore potrà più dire «non sapevo chi fosse quella persona». E nei mesi che seguono il blitz dell'antimafia, l'Emilia-Romagna deve fare i conti con un altro problema: essere impreparati a gestire una quantità di beni confiscati in crescita che, solo dopo la fine del rito abbreviato, potrebbe superare le 350 unità.

Servono più investimenti e risorse anche per mappare i beni confiscati. Nel frattempo sono arrivati in aiuto i giovani universitari del laboratorio di Data Journalism dell' Alma Mater di Bologna. I quindici studenti, in sei settimane di ricerche, decine di email inviate, analisi dei dati e ricerca di notizie di cronaca, hanno fotografato uno scenario poco confortante: con oltre 300 beni sottratti alla criminalità solo 38 sono stati assegnati. La nuova vita dei beni confiscati, in Emilia-Romagna, è ancora un miraggio.

La mafia in Lombardia. Superato il fiume Po, la mafia si è diretta più al nord, verso Piemonte e Lombardia. Secondo il report «Mafie e corruzione a Milano», stilato da Libera, i primi ingenti investimenti di denaro sporco risalgono agli anni '60, quando molti uomini e donne del sud hanno lasciato i loro comuni e si sono diretti verso l'industrializzato nord. Ma con le loro valigie di cartone, si sono spostati anche gli esponenti di clan mafiosi che hanno trovato in quelle aree di grande sviluppo economico un terreno fertile per piantare il seme dell'illegalità. «Un ruolo decisivo fu giocato anche dai cittadini nati e cresciuti in loco e divenuti complici del malaffare per scelta criminale», si legge nel dossier di Libera.

In Lombardia, il bene più grande sottratto alla criminalità organizzata è « Casa Chiaravalle», una cascina confiscata alla mafia nel 2012. Dopo la decisione del tribunale e l'affidamento della struttura al Comune di Milano, l'immobile con i suoi 1.600 metri quadrati viene gestita da un gruppo di organizzazioni (Chico Mendes, Arci, Consorzio SIS e La Strada onlus) che ospiterà le famiglie dell'hinterland milanese che non hanno una casa in cui vivere.

Il quartier generale di via Ezio
Nell’inventario dei beni confiscati ci sono serigrafie di Andy Warhol, tele di Renato Guttuso. Anche pitoni, koala, pappagalli. E una tigre

Roma, quartiere Prati. Al primo piano di via Ezio 12 c’è l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati. Sul citofono è scritto solo l’acronimo: Anbsc. Nessuna targa ricorda che l’appartamento un tempo apparteneva a Matilde Ciarlante, imprenditrice legata alla banda della Magliana. Su venti persone intervistate davanti al palazzo, nessuna ha idea che lì c’era il salone di bellezza dei boss e che ora invece è di casa lo Stato.

“Siamo qui da due anni, abbiamo mandato via un avvocato che occupava l’immobile abusivamente”, dice il direttore dell’agenzia Umberto Postiglione. Un trasloco che ha smorzato le polemiche: prima infatti l’agenzia era a via dei Prefetti dove pagava 25.000 euro di affitto al mese proprio a Roma, città con più di 500 immobili sottratti alla malavita.
L’agenzia nasce nel 2010, accolta con entusiasmo dagli addetti ai lavori che da anni chiedevano un ente ad hoc che sbrigliasse i grovigli dentro cui troppo spesso restavano impigliati i beni. Prima di allora la competenza era del demanio. Il 16 marzo 2010 il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni saluta così il nuovo soggetto pubblico: “Inauguriamo oggi l’agenzia che dovrà gestire l’immenso patrimonio che abbiamo sequestrato ai mafiosi".

La sede principale è a Reggio Calabria: viene scelta perché nel sud più si concentrano le confische. È anche una risposta simbolica dello Stato all’ordigno esploso davanti alla Procura di Reggio soltanto due mesi prima. Ma la geografia delle confische cambia rapidamente, la criminalità organizzata avanza al centro e al nord, e il consiglio direttivo si riunisce sempre più spesso a Roma, meta non facile da raggiungere da Reggio Calabria. “Oggi, per esempio, ho una riunione con i rappresentanti dell’Anci, qui a Roma”, dice Postiglione mentre entra nella sala riunioni. Sulla parete di sinistra, vicino alla finestra, c’è una foto che ritrae i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone uccisi dalla mafia. Sorridono ad Antonino Caponnetto, il magistrato che ha guidato il pool antimafia dal 1984 al 1990.
La foto di Borsellino, Falcone e Caponnetto nella sede dell'Agenzia

Il ruolo dell’Agenzia. Nell’appartamento romano di via Ezio e nelle sedi di Reggio Calabria, Milano, Napoli, Palermo lavorano cento persone. Arrivano dalla pubblica amministrazione. Inizialmente erano solo trenta. Il loro compito, secondo il codice delle leggi antimafia, è di amministrare e destinare i beni sequestrati e confiscati dopo la confisca definitiva, ma anche aiutare l'amministratore giudiziario sotto la direzione dell'autorità giudiziaria in fase di sequestro fino alla confisca di primo grado, dopo la quale assumono la gestione diretta degli stessi beni.
Devono anche monitorare l’effettivo uso sociale del bene destinato. In caso di cattiva gestione, devono revocarne l’assegnazione. Hanno a che fare con beni mobili, immobili e aziendali. I soldi mafiosi vanno dritti nel fondo unico di giustizia (Fug), ma il resto è tutto nelle loro mani. Trattano quotidianamente con tribunali, avvocature di stato, enti locali, aziende. Ci sono posti di lavoro da salvare, palazzi da non far cadere a pezzi, terreni da far fruttare, auto di lusso da vendere all’asta. Bisogna mediare con le banche per le ipoteche che pendono sugli immobili, parlare con i familiari dei boss che non vogliono lasciare le case. Secondo la relazione annuale della direzione nazionale antimafia presentata da Franco Roberti al parlamento nel 2015, in centro Italia su 1.038 immobili, 155 sono abitati dall’imputato o da un parente, numero che sale a 209 al nord su un totale di 1.301 appartamenti confiscati.

I numeri mancanti. Sul sito dell’Anbsc è scritto: “La creazione dell'Agenzia ha come elemento innovativo il tentativo di introdurre un'amministrazione dinamica dei patrimoni”. A sei anni dalla nascita però i numeri non testimoniano questo dinamismo. Primo fra tutti c’è lo scarto tra i beni confiscati e quelli destinati: 23.000 contro 11.000. Postiglione difende l’operato della sua squadra: “Nel 2015 siamo riusciti ad assegnare 3.842 beni confiscati moltiplicando per dieci i risultati medi degli anni precedenti. Facciamo quello che possiamo rispetto alle nostre forze. Sono stato nominato il 18 giugno del 2014 e ho cercato di portare il personale al massimo consentito dalla legge che è di 100 persone. Ma avrei bisogno di almeno 300 persone”.
Altro nodo è la raccolta dei dati, compito specifico dell’Agenzia così come previsto dal codice antimafia. Sul sito dell’Anbsc gli ultimi numeri risalgono a settembre 2015. “A noi i dati arrivano dai tribunali, dal ministero della Giustizia. Se non ce li danno di nuovi non possiamo aggiornarli”, afferma il direttore. Nel 2014 è stato collaudato Regio, il database per cui il Programma operativo nazionale sicurezza ha stanziato oltre 7 milioni di euro, ma è uno strumento rivolto solo agli operatori del settore. Il comune cittadino che naviga sul sito web dell’agenzia trova poche informazioni su immobili e imprese. Se volesse sapere che fine ha fatto, per esempio, la palestra del suo quartiere confiscata al boss della ’ndrangheta non troverebbe nessuna notizia.

A quanto ammonta il valore delle confische? Secondo Postiglione questa domanda non può avere una risposta: “Come si fa ad attribuire un valore a una impresa che appartiene a un boss che fattura perché opera nella illegalità? O a un palazzo che nessuno vorrebbe comprare per paura di ritorsioni”. Eppure Giuseppe Caruso, direttore dell’agenzia prima di Postiglione, nel 2014, in una relazione alla commissione parlamentare antimafia, ha indicato la cifra di 30 miliardi. «Basti pensare», ha aggiunto «che un'azienda del gruppo Aiello, l'ingegnere che teneva la cassaforte di Bernardo Provenzano, è valutata da sola 800 milioni di euro». Fa una stima anche la Direzione investigativa antimafia che analizza i procedimenti di sua competenza: il patrimonio confiscato dal 1992 al 2015 ha un valore di 7.640.797.611 euro così suddivisi: 4.453.526.359 a Cosa nostra, 1.347.262.215 alla camorra, 1.416.022.188 alla ‘ndrangheta, 137.657.255 alle cosche pugliesi, 286.329.594 ad altri sodalizi malavitosi. Si tratta di un tesoro fatto di ville affrescate, alberghi con vista su San Pietro, imprese di trasporti, discoteche, cascine, pizzerie, cliniche, collane, orologi, pezzi di antiquariato, opere d’arte. Nell’inventario ci sono serigrafie di Andy Warhol, tele di Renato Guttuso. Anche barche: una ora è all’istituto nautico di Vibo Valentia, un’altra è stata affidata all’associazione napoletana Asgam che lavora con i ragazzi disabili. Nella lista ci sono anche animali. Pitoni, cavalli, koala, pappagalli, pecore. E una tigre.

All’agenzia servirebbe del personale qualificato e dalle diverse competenze. Ad oggi il direttore è scelto tra i prefetti e nel consiglio direttivo siede un rappresentante del ministero della Giustizia, un magistrato delegato dal procuratore nazionale antimafia, due esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali. Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, è stato una meteora: entrato nel direttivo il 20 gennaio 2015 si è auto-sospeso un mese dopo. Il motivo? Il suo coinvolgimento in un’inchiesta della procura di Caltanissetta per presunto concorso esterno a Cosa nostra.

 

 

 

0 commenti